Laicità e pluralismo (2003)[1]
Angel Rodríguez Luño
La laicità dello Stato viene spesso invocata in modo ambiguo o improprio, e talvolta persino per mascherare atteggiamenti o espedienti poco rispettosi della sensibilità religiosa dei cittadini. Ma in sé costituisce un valore positivo, che non dovrebbe generare sfiducia o sospetto. Lo stesso si deve dire del pluralismo politico, conseguenza immediata della libertà, che lo Stato riconosce a tutti i cittadini e la Chiesa cattolica ai suoi fedeli (cf. per esempio CIC, c. 227). La Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, recentemente pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, precisa opportunamente che «per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica - ma non da quella morale - è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto» (Nota, n. 6). La concezione monista, propria del mondo greco-romano e di altre civiltà non cristiane, di una comunità politica che unificava organicamente le esigenze religiose con quelle etiche e con quelle più propriamente politiche, diventa inaccettabile dopo l’avvento di Cristo. Con il Cristianesimo entra in scena un concetto più alto di persona, la cui dignità e libertà è fondata ultimamente in una sfera di valori che trascendono la politica. Dall’insegnamento evangelico secondo cui bisogna rendere a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio (cf. Mt 22, 15-22; Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26), segue l’esistenza di una dualità di sfere e di autorità, chiamate ad svolgere i loro compiti specifici in modo autonomo e armonico: chi dà a Dio ciò che è di Dio può senza contraddizione dare a Cesare ciò che è di Cesare. San Paolo sembra dare un passo in più: nell’invocare le «ragioni di coscienza», viene ad affermare che non si può rendere a Dio ciò che è di Dio senza rendere a Cesare ciò che è di Cesare (cf. Rm 13, 1-7). Lo Stato che opera rettamente entro il proprio ambito di competenza nulla ha da temere da quell’altro insegnamento apostolico, secondo cui «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).
Per il pensiero cristiano la sfera politica e quella religiosa sono tuttavia connesse a causa delle «ragioni di coscienza» invocate da San Paolo (Rm 13, 5), vale a dire, a causa del terreno morale in cui entrambe si incontrano. La politica è la «molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune» (Nota, n. 1). Per il suo essenziale riferimento al bene degli uomini che vivono insieme, la prassi politica non ha solo delle importanti dimensioni morali, ma è essa stessa prassi morale, anche se non ogni prassi morale è prassi politica. Su questi presupposti, la concezione cristiana della laicità consiste nell’affermazione simultanea di tre principi:
1) La politica non è separabile dalla morale, perché la politica è essenzialmente riferita al bene comune, che comprende la promozione e la tutela di beni rilevanti per la vita in comune delle persone umane, quali l’ordine pubblico e la pace, la libertà, la giustizia e l’uguaglianza, il rispetto della vita umana e dell’ambiente, la solidarietà, ecc. (cf. Nota, n. 1).
2) L’indole morale della prassi politica non può fondare confusione alcuna tra la società politica e la comunità religiosa, tra le loro finalità e tra gli ambiti di competenza propri delle loro rispettive autorità. Se sta nella natura stessa delle cose che la sfera politica e quella religiosa abbiano punti in comune, sta pure nella natura delle cose che il luogo privilegiato in cui tale connessione lascia sentire il suo peso sia la coscienza personale di quanti sono al tempo stesso e inseparabilmente cittadini (o anche governanti) dello Stato e fedeli della Chiesa. E così l’esistenza di punti di contatto tra la sfera politica e la sfera religiosa non intacca la loro distinzione e reciproca autonomia. Anzi, per evitare qualsiasi ambiguità, la Chiesa cattolica vieta ai chierici «di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile» (CIC, c. 285 § 3), nonché la partecipazione attiva nei partiti politici (cf. Nota, n. 1, nota 1), anche se i chierici continuano ad essere cittadini che esercitano tutti i diritti politici compatibili con la loro condizione di ministri sacri (diritto al voto, ecc.).
3) Per quanto riguarda la religione, laicità dello Stato non significa irreligiosità, agnosticismo o ateismo di Stato. Lo Stato laico riconosce l’importanza e il ruolo sia del fenomeno religioso in quanto tale, sia delle convinzioni religiose dei cittadini e delle tradizioni religiose dei popoli. Nel contempo è consapevole di non essere la fonte né il giudice della coscienza religiosa dei cittadini, ai quali riconosce il più ampio diritto alla libertà religiosa, purché vengano rispettate le giuste esigenze dell’ordine pubblico. E se, «considerate le circostanze peculiari dei popoli, nell’ordinamento giuridico di una società viene attribuita ad una comunità religiosa uno speciale riconoscimento civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e comunità religiose venga riconosciuto e rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa» (Dignitatis humanae, n. 6).
L’insegnamento della Chiesa in materia sociale e politica intende essere pienamente rispettoso sia della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica, sia del legittimo pluralismo politico dei fedeli. Tale insegnamento si rivolge alla coscienza dei cittadini cattolici, e dei cittadini non cattolici che liberamente vogliano ascoltarlo, per illustrare quelle esigenze etiche appartenenti alla coscienza cristiana che riguardano il retto ordinamento di una società politica di persone umane, e non di una particolare comunità religiosa. La Chiesa cattolica è ben consapevole «che gli atti specificamente religiosi (professione della fede, adempimento degli atti di culto e dei Sacramenti, dottrine teologiche, comunicazioni reciprocche tra le autorità religiose e i fedeli, ecc.) restano fuori dalle competenze dello Stato, il quale né deve intromettersi né può in modo alcuno esigerli o impedirli, salve esigenze fondate di ordine pubblico» (Nota, n. 6). L’insegnamento sociale della Chiesa non propone valori o principi che presuppongono la professione della fede cristiana (cf. Nota, n. 5), ma esigenze etiche «radicate nell’essere umano» (ivi), che «per la loro natura e per i loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”» (Nota, n. 3). Si tratta di valori rilevanti per il bene comune politico che di per sé impegnano moralmente la coscienza di ogni cittadino.
Per la morale cristiana, che nella sua struttura interna risponde alla logica dell’Incarnazione, è del tutto connaturale l’assunzione di tutto ciò che veramente è valore umano, individuale o sociale, anche se in essa la fede resta sempre il criterio definitivo di vita. Da qui l’esortazione di San Paolo: «In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8). Ragione e fede non sono principi autoescludentesi. Specialmente in campo morale la fede è anche conferma di verità raggiungibili da tutti. Perciò si afferma che «il fatto che alcune di queste verità siano anche insegnate dalla Chiesa non diminuisce la legittimità civile e la “laicità” dell’impegno di coloro che in esse si riconoscono, indipendentemente dal ruolo che la ricerca razionale e la conferma procedente dalla fede abbiano svolto nel loro riconoscimento da parte di ogni singolo cittadino. La “laicità”, infatti, indica in primo luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se tali verità siano nello stesso tempo insegnate da una religione specifica, poiché la verità è una» (Nota, n. 6). E giustamente si aggiunge che coloro che «volessero vedere nel dovere morale dei cristiani di essere coerenti con la propria coscienza un segno per squalificarli politicamente, negando loro la legittimità di agire in politica d’accordo con le proprie convinzioni riguardanti il bene comune, incorrerebbero in una forma di intollerante laicismo» (ivi). Agendo secondo la loro coscienza, i cristiani hanno introdotto nella cultura politica valori e istanze, quali per esempio il superamento graduale della schiavitù, che al suo momento erano contrastati da tutti, ma che oggi nessuno li considererebbe confessionali o comunque contrari alla laicità della politica.
La Nota dottrinale non dimentica che l’attività politica non è mera dichiarazione di valori etico-politici astratti. Essa mira piuttosto «alla realizzazione estremamente concreta del vero bene umano e sociale in un contesto storico, geografico, economico, tecnologico e culturale ben determinato» (n. 3). A questo livello di concretezza esiste un legittimo pluralismo politico dei cittadini cattolici. La coscienza cristiana è vincolata da alcuni valori sostanziali di fondo, ma spesso sono concepibili diverse strategie per la loro realizzazione concreta, e si può avere opinioni diverse sull’interpretazione dei principi basilari della teoria politica che meglio si adegua all’idiosincrasia di un popolo, oppure la complessità tecnica di alcuni problemi politici può lasciare spazio a diverse soluzioni moralmente accettabili. È diritto e dovere della Chiesa pronunciare giudizi morali su realtà temporali quando ciò sia richiesto dalla fede o dalla morale, ma esula dalla sua missione individuare e suggerire proposte concrete, e meno ancora proposte uniche vincolanti, per problemi che secondo la coscienza cristiana ammettono diverse soluzioni (cf. Nota, n. 3). Proporre e prendere le opzioni che si ritengono più adeguate per il bene comune è compito e responsabilità specifica di tutti coloro che sono propriamente soggetti attivi della politica: i cittadini credenti e non credenti, i partiti, le istituzioni, i governanti. Cosa ben diversa è per un cattolico — e, per altro titolo, anche per un qualsiasi cittadino — confondere la pluralità di opzioni politiche legittime, «con un indistinto pluralismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa riferimento. La legittima pluralità di opzioni temporali mantiene integra la matrice da cui proviene l’impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla dottrina morale e sociale cristiana. È su questo insegnamento che i laici cattolici sono tenuti a confrontarsi sempre per poter avere certezza che la propria partecipazione alla vita politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà temporali» (Nota, n. 3). Il pluralismo politico nulla ha a che vedere con il relativismo o pluralismo etico, per il quale ogni concezione sul bene dell’uomo vale quanto qualsiasi altra (cf. Nota, nn. 2-3). Neppure può essere invocato legittimamente a proposito di comportamenti o strategie politiche (aborto, distruzione di embrioni umani, ecc.) che si oppongono in modo frontale a esigenze essenziali del bene comune (cf. Nota, n. 4).
I chiarimenti sulla laicità e il pluralismo sono un aspetto importante della Nota che qui commentiamo. Non ne costituiscono tuttavia lo scopo principale. Di fronte al conformismo e al relativismo dilagante in molti ambienti politici, e che talvolta assumono connotati di intolleranza o di ingiustizia, la Nota intende innanzitutto richiamare i cittadini cattolici ad un impegno sociale e politico coerente con la coscienza cristiana. La pressione ambientale, che si serve frequentemente di slogans che non resistono l’analisi razionale, e l’attribuzione di maggiore peso a disaccordi su questioni contingenti che alla condivisione di valori sostanziali di fondo, può dar luogo ad uno sdoppiamento della coscienza, a una specie di schizofrenia mentale per la quale una cosa è ciò che nell’intimità della coscienza si ritiene conveniente per il bene comune, e un’altra — forse persino contraria — è quello che si sostiene nell’attività sociale e politica. Il Concilio Vaticano II avvertì che «il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo» (Gaudium et spes, n. 43). La retta comprensione della laicità e del pluralismo è tuttavia necessaria per meglio inquadrare, nel contesto delle attuali società democratiche, l’urgente necessità di impegnarsi affinché la vita pubblica sia ordinata secondo i valori di libertà, giustizia, pace, rispetto per la vita, solidarietà, ecc. che sono inseparabili della coscienza cristiana.